Tanti anni fa a Fiaiano (di Maria D'Acunto)

Racconto di Maria D'Acunto, insegnante della Scuola Elementare di Fiaiano alla fine degli anni '60.

Fiaiano è forse la più bella frazione del Comune di Barano d'Ischia. Ha una veduta magnifica sulla costa che si estende dal litorale domizio alla punta Campanella, abbracciando il golfo di Napoli e la penisola sorrentina. Ai suoi piedi, il Castello Aragonese, Procida, Capo Miseno. E' una piccola frazione, ma ha una grande pineta, che sconfina con un bosco di lecci, ricca di bombe vulcaniche, voragini e fumarole. Qui si possono ammirare rari papiri e diversi alberi nella roccia.
Fiaiano ha due fontanelle, la cui acqua arriva direttamente dalla sorgente di Boceto e, in alto, è ricoperta da selve che si arrampicano verso Tribbeto.
Poichè confina con Casamicciola, nel terremoto devastante del 1883, fu la frazione di Barano più colpita. Ebbe morti e case distrutte. Sulle macerie furono costruite delle baracche, che sono sopravvissute fino ad alcuni decenni fa. Il lato destro della strada che va verso il basso era tutto occupato da baracche. Poi le hanno abbattute e al loro posto sono sorte delle belle casette, tutte a un piano, con terrazze e balconi.
Svoltando a destra, da via G. Garibaldi che continua verso Porto d'ischia, e scendendo verso la pineta, si arriva alla chiesa di Sant'Anna, piccola (ora ne hanno costruita una molto spaziosa, dall'architettura moderna, a poca distanza dal supermercato), ma molto suggestiva che ha il campanile all'esterno.
Intorno alla chiesa c'è un nucleo di case che che viene indicato come "abbascio 'u campanaro" ed è abitato prevalentemente da donne di Fontana.
In questa frazione, così aperta al sole e al mare, ho trascorso la maggior parte della mia vita di insegnante. Avrei potuto trasferirmi in altro plesso (per esempio in quello di Piedimonte, dove abito) oppure in una scuola di grado superiore, ma, per lungo tempo (fino a quando la scuola non è cambiata) non mi venne mai la tentazione di andarmene. Scelta per caso, Fiaiano divenne immediatamente la mia sede di adozione. In questa scuola c'era tutto quello a cui come maestra aspiravo. Mi piacquero i bambini, le famiglie e i loro atteggiamenti nei confronti dell'istituzione scolastica. Stabilii degli ottimi rapporti con le colleghe (Adele T., Gigia M., Alba Di M. - Avevamo avuto un collega, Giovanni L., ma era morto precocemente. Il suo posto fu occupato di anno in anno da docenti che poi se ne andavano.)
Nei primi anni la scuola era stata sistemata in un appartamento a piano terra, nella casa che viene dopo la chiesa nuova. C'erano cinque aule, un cucinino nel quale Ernesta preparava il caffè, un bagno e un cortile, dove si riversavano gli alunni nell'intervallo. Ci andavamo anche noi maestre: a prendere il caffè e a fumare. Le fumatrici eravamo io e Adele.
Tenuto conto che prima le aule erano dislocate per tutto il paese, tutto sommato la sistemazione in quell'appartamento non era scomoda. Però non aveva niente a che fare con l'edificio che si stava costruendo e nel quale poi ci trasferimmo: aule spaziose e luminose, alcune della quali si affacciavano sul giardino dell'albergo; un vasto corridoio; un cortile; un'aula per la scuola materna. E una bella cucina, regno della nostra Ernesta. Vi prendemmo piede con orgoglio e soddosfazione e organizzammo subito una festa, alla quale sarebbero seguite tante altre.
Festeggiavamo tutto. Giorni sacri e ricorrenze civili: Natale, Pasqua, l'Ascensione; la festa della donna, il 25 aprile, il Primo maggio. Così nel corridoi, a seconda della festa, si sentivano zampogne (venivano anche gli Zampognari), canti sacri (Tu scendi dalle stelle, Quanno nascette Ninno, Ti salutiamo, Vergine) e canti dei lavoratori e della Resistenza (Bella ciao, Son la mondina, la lega) e anche canzoni di De Andrè (La guerra di Piero, Fila la lana) e napoletane.
E ogni festa si concludeva con il trionfo delle mamme. Ognuna di loro aveva preparato qualcosa di buono (frittelle, torte) e aspettava che la festa finisse per tirarla fuori. Alcune di loro, le più intraprendenti, si esibivano a volte anche durante lo spettacolo, con belle canzoni. I padri, che di solito erano assenti per via del lavoro, non mancavano alle feste. E, quando potevano, davano una mano per costruire capanne o altro. Il più solerte era Pasquale S. che ci fece più volte da guida nelle escursioni alle sorgenti e ai boschi. Una guida preziosa, perchè conosceva tutte le piante.
Ma quelle sempre presenti erano le mamme. Partecipavano non solo alle feste, ma anche alle gite. Era impensabile una gita senza di esse. Facevano i preparativi il giorno prima e al mattino erano belle e pronte per la partenza. Nel tragitto fino al Porto se ne stavano tranquille, ma sul piroscafo cominciavano a sbizzarrirsi. Ridevano, parlavano animatamente, si lanciavano lazzi. Sul pullman che ci portava al sito o al monumento cominciavano anche a cantare.
Erano stracariche, perchè oltre le cibarie, avevano portato tutto l'occorrente per impastire un vero pranzo. Arrivati alla meta, facevamo la visita e poi ci sedevamo su un prato per mangiare. E loro tiravano fuori quello che avevano preparato: maccheroni al forno, lasagne, pollo, coniglio, uova sode. E perfino insalata, frutta e dolci.
La gita era per loro una delle poche occasioni per uscire dal quotidiano e nessuna di loro mancava. Una volta, alla Reggia di Caserta, venne anche una coppia di giovani sposi. Il matrimonio era avvenuto qualche giorno prima, ma loro non avevano le possibilità di fare il viaggio di nozze. Così Vincenzo, lo sposo, mi chiese se potevano partecipare. Partirono con noi e per tutta la giornata se ne stettero trasognati con la mano nella mano. A volte incontro qualcuna di quelle mamme e mi sento sempre dire che quelle gite e quelle feste non le dimenticheranno mai.
Credo che quegli anni furono belli anche per i loro figli. Stabilirono dei buoni rapporti tra loro, con le maestre e venivano con piacere a scuola. Provenivano da tutte le località di Fiaiano, compreso il Cretaio, e da famiglie che non avevano nè il tempo nè la capacità di seguirli. Solo pochi genitori avevano un titolo di studio. Gli si erano fermati alle elementari e avevano poca dimestichezza con l'istruzione scolastica. I figli, nei compiti a casa, dovevano sbrigarsela per questo da soli. E non erano capaci di farlo. Decisi allora di farli in classe tutti insieme. C'erano anche degli alunni che, pur provenendo da una ambiente culturalmente deprivato, raggiungevano alti profitti (peccato che non abbiano proseguito gli studi!) Ma erano pochi. La maggioranza apprendeva l'essenziale: leggere, scrivere, far i conti e nozioni di storia, geografia, scienze.
Leggere e scrivere correttamente non era un obiettivo facile da raggiungere. Anzitutto per il problema della lingua. I bambini si esprimevano esclusivamente in dialetto. L'italiano cominciava a farsi sentire tramite la televisione, ma il suo uso richiedeva sempre una traduzione: agevole per i figli di diplomati e laureati; difficoltosa per gli altri. Tu gli dicevi che si dice posso, andare, merenda, ma loro continuavano a dire "Maestra, pozzo ire in gabinetto?" Maestra, Pino s'à arrubbato la marenna" "Mamma m'à preparato 'u culurcio 'e pane e pummarole"
E quello che si parlava a Fiaiano non era solo il dialetto locale, perchè, giù al campanaro, c'era una colonia di donne fontanesi sposate con fiaianesi. Ed esse continuavano a esprimersi nel loro idioma. La lingua che si parlava in quelle case era un misto di "sciaianese" (fiaianese) e funtanese. E con questa lingua i bambini venivano a scuola.
Arrivavano impauriti e impacciati. Non volevano staccarsi dalla madre e piangevano, poi prendevano confidenza con l'ambiente e si abituavano al ritmo scolastico. Imparavano le lettere dell'alfabeto, le cifre e le pagine dei loro quaderni cominciavano a riempirsi di parole e di numeri.
Un quaderno rimase bianco per più di un mese: era quello di Franco, il figlio di una sorridente donna fontanese. Ogni mattina la madre, nel lasciarlo davanti alla scuola, gli diceva: "Franco, Ogge adda scivere" e lui prometteva. Poi entrava nell'edificio e si dirigeva verso la nostra aula, però si fermava fuori, perchè era timido. Lo chiamavamo e lui entrava. Andava a sedersi al suo posto, apriva la cartella e tirava fuori il quaderno. Impugnava la penna e a mezza voce diceva "Ogge scrivo, Mo' faccio na bella pagginetta. Accussì mamma è cuntenta: Ogge scrivo" Andava avanti con questa tiritera, ma la penna non si posava mai sul quaderno. Poi un giorno mi venne vicino e mi mostrò il quaderno "Aggio scritto" disse, Ed era vero. aveva scritto "ala", la prima parola dell'alfabetiere.
Franco non è diventato un uomo di lettere. Ha preso a fatica la licenza media, ma si è rivelato abile nel lavoro. Ora è un bravo asfaltista. La maggior parte degli alunni di quella classe e anche delle altre non ha continuato gli studi. Alcuni se ne sono andati precocemente (Elisa B. hai portato lassù con te quel senso dell'ironia? Pino D. arrossisci sempre quando qualcuno ti guarda? Lucia B., tanto cara, hai sempre quel bel sorriso e quella voglia di scherzare?) Noi non li abbiamo dimenticati e li rimpiangeremo sempre.
Gli altri lavorano e sono quasi tutti sposati. Alcuni di loro facevano arrabbiare Ernesta, perchè , nel rivolgersi a lei, dicevano "Bidè, bidè" e lei con lo sguardo feroce a dire. "Io me chiammo Ernesta. Si dicete ancora chella parola, ve piglio cu 'a scopa" La scopa che era il suo scettro di regina dell'edificio

Qualche anno fa gli alunni della classe di Franco hanno organizzato una festa per me. Siamo andati alla Rosa dei Venti. Senza mogli, mariti e figli . E io in ognuno di loro ho ritrovato l'alunno di tanti anni fa.

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